Lettura estiva

Garneray - Genova,1810 circa, Acquatinta

Bartlebooth non solo non sapeva niente di quell’arte fragile che è l’acquerello, ma non aveva neanche mai tenuto in mano un pennello e poco di più una matita. Il primo anno, Valène incominciò quindi con l’insegnargli a disegnare e gli fece eseguire a carboncino, grafite e sanguigna delle copie di modelli con telaio quadrettato, schizzi di collocazione, studi tratteggiati con lumeggiature di gesso, disegni ombrati, esercizi di prospettiva. Poi, gli fece fare altri disegni a china o a seppia, imponendogli fastidiosi lavori pratici di calligrafia e mostrandogli come diluire più o meno le pennellate per porre valori di toni diversi e ottenere sfumature.
In capo a due anni, Bartlebooth riuscì a impadronirsi di queste tecniche preliminari. Il resto, affermò Valène, era semplicemente questione di materiale e di esperienza. Cominciarono a lavorare all’aperto, al parc Monceau, in riva alla Senna, al Bois de Boulogne inizialmente, e poi ben presto nei dintorni, fuori Parigi. Tutti i giorni alle due, l’autista di Bartlebooth - non era ancora Kléber, ma Fawcett, che aveva già servito Priscilla, la madre di Bartlebooth - andava a prendere Valène; il pittore trovava il suo allievo giudiziosamente equipaggiato con calzoni da golf, gambali, berretto scozzese e pullover jacquard nella grossa limousine Chenard e Walker nerobianca. Se ne andavano nella foresta di Fontainebleau, a Senlis, a Enghien, a Versailles, a Saint-Germain o nel valloncello di Chevreuse. Sistemavano fianco a fianco il seggiolino pieghevole a tre piedi detto “seggiolino Pinchart”, l’ombrellone con manico a gomito e puntale e il fragile cavalletto articolato. Con una precisione maniacale e quasi maldestra per troppa minuzia, Bartlebooth puntinava sulla sua tavoletta di frassino a fibre contrastate un foglio di carta Whatman grana sottile precedentemente inumidito sul retro, dopo aver verificato guardando in controluce il marchio di fabbrica che avrebbe lavorato sulla facciata giusta, apriva la tavolozza di zinco la cui faccia interna smaltata era stata accuratamente pulita alla fine della seduta del giorno prima e vi disponeva, con ordine rituale, tredici scodelline di colore - nero d’avorio, seppia, terra di Siena bruciata, ocra gialla, giallo indiano, giallo cromo chiaro, rosso vermiglione, lacca di robbia, verde Veronese, verde oliva, blu oltremare, blu cobalto, blu di Prussia - come pure qualche goccia di bianco di zinco di madame Maubois, si preparava acqua, spugne, matite, verificava ancora una volta che i pennelli fossero perfettamente astati, e la punta ben dritta, la pancia non troppo gonfia, i peli senza sciuffettature, e, lanciandosi, abbozzava con lievi tocchi di matita le grandi masse, l’orizzonte, i primi piani, le linee di fuga, prima di cercar di cogliere, in tutto lo splendore della loro immediatezza, dell’imprevedibilità, le metamorfosi effimere di una nuvola, la brezza che increspa la superficie di uno stagno, un crepuscolo nell’Ile-de-France, un volo di storni, la luna che s’alza su un villaggio addormentato, una strada orlata di pioppi, un cane che punta davanti a un macchione, eccetera.
Valène scuoteva quasi sempre la testa e con tre o quattro frasette - il cielo è troppo carico, non c’è equilibrio, ha fallito l’effetto, non esiste contrasto, dov’è l’atmosfera, non ci sono gradazioni, l’esecuzione è piatta, e via dicendo - sottolineate da cerchi e cancellature buttate con negligenza sull’acquerello, distruggeva senza pietà il lavoro di Bartlebooth il quale, senza dire una parola, strappava via il foglio dalla tavoletta di frassino, ne rimetteva un’altra ed era pronto a ricominciare.
All’infuori di questa pedagogia laconica, Bartlebooth e Valène non parlavano quasi. Anche se avevano esattamente la stessa età, Bartlebooth non sembrava assolutamente curioso di Valène, e Valène, pur se incuriosito dall’eccentricità del personaggio, stentava parecchio a interrogarlo direttamente. Pure, a più riprese, sulla via del ritorno, gli domandò perché si ostinasse tanto a voler imparare l’arte dell’acquerello. “E perché no?” rispondeva in genere Bartlebooth. “Perché” replicò un giorno Valène “al posto suo, la maggior parte dei miei allievi si sarebbe scoraggiata da parecchio tempo.” “Sono poi così asino?” domandò Bartlebooth. “In dieci anni, s’impara qualsiasi cosa, e lei lo farà, ma perché mai vuole impadronirsi a fondo di un’arte che, spontaneamente, le è totalmente indifferente?” “Non sono gli acquerelli che m’interessano, ma quello che voglio farne.” “E cosa vuol farne?” “Dei puzzle, naturalmente”, rispose Bartlebooth senza la minima esitazione.
Quel giorno, Valène cominciò a farsi un’idea più precisa di quanto aveva in animo Bartlebooth. Ma fu solo dopo aver conosciuto Smautf, e poi Gaspard Winckler, che fu in grado di valutare quella che era l’ambizione dell’inglese in tutta la sua estensione:
Immaginiamo un uomo la cui fortuna fosse pari solo all’indifferenza verso quello che generalmente la fortuna permette, e il cui desiderio fosse, con molto più orgoglio, cogliere, descrivere, esaurire, non la totalità del mondo - progetto che il suo stesso enunciato è sufficiente a mandare in rovina - ma un frammento costituito di quest’ultimo: di fronte all’inestricabile incoerenza del mondo, si tratterà allora di portare fino in fondo un programma, ristretto, sì, ma intero, intatto, irriducibile.
Bartlebooth, in altre parole, decise un giorno di organizzare tutta la sua vita intorno a un progetto unico la cui necessità arbitraria non avrebbe avuto uno scopo diverso da sé.
L’idea gli venne quando aveva vent’anni. Fu sulle prime un’idea vaga, una domanda che si poneva: cosa fare?, una risposta che si abbozzava: niente. Il denaro, il potere, l’arte, le donne, non interessavano Bartlebooth. Come neanche la scienza, né il gioco. Tutt’al più le cravatte e i cavalli o, se preferite, imprecisa ma palpitante sotto queste futili apparenze (anche se migliaia di persone ordinano efficacemente la loro vita intorno alle cravatte e in numero ancora superiore intorno ai cavalli della domenica), una certa idea di perfezione.
Che si sviluppò nei mesi, negli anni a seguire, articolandosi intorno a tre principi direttivi:
Il primo fu di ordine morale: non si sarebbe trattato di un’impresa o di un record, né di una cima da scalare o di un abisso marino da raggiungere. Quello che Bartlebooth avrebbe fatto non sarebbe stato spettacolare né eroico; sarebbe stato semplicemente, discretamente, un progetto, difficile certo, ma non irrealizzabile, controllato da cima a fondo e che, in compenso, avrebbe dominato, in ogni suo particolare, la vita di colui che vi si sarebbe dedicato.
Il secondo fu di ordine logico: senza alcun ricorso al caso, l’iniziativa avrebbe fatto funzionare tempo e spazio come coordinate astratte in cui si sarebbero iscritti con una ricorrenza ineluttabile degli avvenimenti identici inesorabilmente prodotti in una certa data, in un certo luogo.
Il terzo, infine, fu di ordine estetico: inutile, essendo proprio la gratuità l’unica garanzia del rigore, il progetto si sarebbe distrutto da solo nel corso stesso del suo divenire; la sua perfezione sarebbe stata circolare: una successione di avvenimenti che, concatenandosi, si sarebbe annullata: partito da zero, Bartlebooth allo zero sarebbe tornato, attraverso trasformazioni precise di oggetti finiti.
Così si organizzò in concreto un programma che possiamo in succinto enunciare così:
Per dieci anni, dal 1925 al 1935, Bartlebooth si sarebbe iniziato all’arte dell’acquerello.
Per vent’anni, dal 1935 al 1955, avrebbe viaggiato in lungo e in largo, dipingendo, in ragione di un acquerello ogni quindici giorni, cinquecento marine dello stesso formato (65 x 50, o 50 x 64 standard) raffiguranti porti di mare. Appena finita, ciascuna di quelle marine sarebbe stata spedita a un artigiano specializzato (Gaspard Winckler) che incollandola su un foglio di legno sottile l’avrebbe tagliata in un puzzle di settecentocinquanta pezzi.
Per vent’anni, dal 1955 al 1975, Bartlebooth, tornato in Francia, avrebbe ricomposto, nell’ordine, i puzzle così preparati, in ragione, di nuovo, di un puzzle ogni quindici giorni. Via via che i puzzle sarebbero stati ricostruiti, le marine sarebbero state ristrutturate in modo da poterle scollare dal loro supporto, trasportate nel luogo stesso in cui - vent’anni prima - erano state dipinte, e immerse in una soluzione solvente da cui non sarebbe riemerso che un foglio di carta Whatman, vergine e intatto.
Così, non sarebbe rimasta traccia alcuna di quella operazione che, per cinquant’anni, aveva completamente mobilitato il suo autore.


da "LA VITA ISTRUZIONI PER L'USO" di Georges Perec (1978)


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